10 ottimi spuntini proteici per ogni tuo obiettivo

In questo articolo presenteremo i migliori spuntini proteici per una merenda gustosa e nutriente.

Gli spuntini proteici sono un modo delizioso e nutriente per sostenere la tua salute e raggiungere i tuoi obiettivi di fitness. Con le opzioni di cui parleremo, puoi variare la tua dieta e assicurarti di ottenere una dose sufficiente di proteine durante la giornata. Le proteine sono fondamentali per la costruzione e il ripristino dei tessuti muscolari, oltre a fornire una sensazione di sazietà che può aiutare a controllare l’appetito.

Di seguito i migliori spuntini proteici da poter portare con te in palestra, a lavoro o a casa.

  1. Yogurt greco magari con aggiunta di frutta fresca o secca: è un ottimo spuntino bilanciato e ricco di proteine e grassi. A molti può non piacere la consistenza pastosa dello yogurt greco, ma, in questo caso, io consiglio di aggiungere un goccio di latte e otterrai una crema deliziosa che stravolge completamente la texture dello yogurt; 
  2. Yogurt greco e granola: lo yogurt greco è molto versatile come alimento e con l’aggiunta di circa 50 gr di granola può essere uno spuntino veloce e comodo da portare ovunque.  
  3. Affettati e frutta: chi non ha mai mangiato in estate il famosissimo prosciutto e melone? Possiamo prendere spunto da questo abbinamento per associare un qualsiasi affettato magro di tuo gradimento con un frutto di stagione per garantire un mix di proteine e vitamine ideale in ogni occasione. 
  4. Parmigiano con frutta: il parmigiano non credo abbia bisogno di presentazioni ed ultimamente si trova facilmente già in comode porzioni direttamente al supermercato. E’ un alimento calorico, con un buon apporto di proteine, sali minerali ed è naturalmente privo di lattosio, associarlo con un frutto fresco offre un’ottima variante per lo spuntino;
  5. “Tramezzino” con tonno e verdura: uno spuntino facile da preparare a casa e da portare ovunque può essere un “tramezzino”, fatto con pane fresco o tostato e farcito con tonno, meglio al naturale se si vogliono risparmiare calorie da inserire in un altro pasto, e verdura come pomodori o insalata. Se lo si preferisce il tonno si può frullare per farne una crema spalmabile; 
  6. Pane integrale con ricotta o fiocchi di latte e frutta secca: spesso ci si dimentica che la ricotta può essere un valido aiuto nel creare spuntini proteici e gustosi, in questo caso potremmo pensare di aggiungere un pizzico di cannella per dare un tocco di sapore in più; 
  7. Pancake di uova e avena: unendo la farina di avena con gli albumi puoi ottenere un impasto per i pancakes con alto contenuto di proteine. Preparali a casa e portali con te accompagnati da frutta fresca, personalmente suggerisco i frutti di bosco;
  8. Pane tostato con salmone affumicato e formaggio spalmabile: è una preparazione relativamente semplice che può essere realizzata in pochi minuti, rendendola un’opzione ideale per un pasto veloce o uno spuntino. Il salmone affumicato è ricco di acidi grassi omega-3, che sono noti per i loro benefici per la salute del cuore e del cervello. Inoltre è una fonte di vitamine come la vitamina D, che è importante per la salute delle ossa, e di minerali come il selenio. Il formaggio spalmabile infine può contribuire con calcio e proteine; 
  9. Burro di arachidi con banana e fette biscottate integrali: ecco un altro alimento semplice e veloce da preparare che puoi portare con te ovunque. Ti consiglio di usare il burro 100% di arachidi in modo da non aver additivi e aggiunta di sale;
  10. Uova sode con pane integrale: le uova sono una fonte significativa di importanti nutrienti, tra cui, oltre a proteine di elevata qualità, vitamine come la vitamina D (importantissima per la salute delle ossa) e vitamine del gruppo B (come la vitamina B12, fondamentale per la salute del sistema nervoso). Questo è un piatto economico e veloce da preparare che può fornire una valida alternativa agli spuntini proteici.

Ipertrofia: il punto di vista di Schoenfeld

L’ipertrofia, ovvero la crescita muscolare, è sempre l’obiettivo principe del “palestrato”, ma anche dell’uomo comune che va in palestra per prepararsi all’estate o della donna che cerca di “tonificare” i propri glutei; in ciascuno di questi casi stiamo sempre parlando di ipertrofia.

Ma quale è il volume ottimale per allenarsi? Quante serie bisogna fare per far crescere un determinato gruppo muscolare?

In un recente articolo apparso su Strenght and Conditioning Journal (2017) Schoenfeld analizza quello che secondo lui è il volume di allenamento ideale per un obiettivo di crescita muscolare ottimale. Schoenfeld è uno dei massimi esperti mondiali di ipertrofia e, anche se sappiamo, che l’opinione degli esperti nella piramide delle evidenze scientifiche è solo alla base, quindi gode di scarsa rilevanza, è pur sempre una utile indicazione dalla quale partire o almeno prendere spunto.

Schoenfeld nel suo articolo parte dalla constatazione che il miglior allenamento per raggiungere l’ipertrofia sia l’allenamento contro resistenza (Resistance Training) e la differente combinazione delle sue molteplici variabili: serie, ripetizioni, carico, TUT, …

La manipolazione delle variabili del Resistance Training (RT) è ampiamente considerata una strategia essenziale per massimizzare gli adattamenti muscolari indotti dall’esercizio fisico. Una variabile RT che ha ricevuto molta attenzione a questo riguardo, in particolare per quanto riguarda il miglioramento dell’ipertrofia muscolare, è il volume di allenamento. Il volume RT è comunemente definito come la quantità totale di lavoro svolto e può essere espresso in diversi modi. Il numero di serie eseguite per un determinato esercizio è forse il modo più comune in cui questa variabile è riportata nella letteratura sull’ipertrofia. Un altro metodo popolare per quantificare il volume RT è il numero totale di ripetizioni eseguite per esercizio (cioè serie moltiplicate per ripetizioni). Infine, il carico volumetrico, o tonnellaggio, è stato proposto da alcuni come la metrica più appropriata, per cui il numero totale di ripetizioni è moltiplicato per la quantità di peso utilizzata in un esercizio durante le varie serie allenanti. Tutti questi metodi di misurazione del volume possono essere considerati modi validi per misurare il volume nel RT dal momento che attualmente non esiste alcun consenso in merito a una metodologia di misurazione definitiva. Supponendo che tutte le altre variabili siano mantenute costanti, l’aumento del volume aumenterà necessariamente il tempo di sotto tensione (TUT – Time Under Tension), che è stato proposto come un importante fattore di anabolismo.

Metodo di calcolo Pro Contro
Numero di serie E’ il metodo più semplice per calcolare il volume di lavoro Piuttosto impreciso in quanto non considera né il numero di ripetizioni né il carico adottato
Serie x Ripetizioni Paragonato al “Numero delle serie”, questo metodo aggiunge molte più informazioni riguardo il carico di lavoro Non tenendo in considerazione il carico, anche se il numero di ripetizioni è lo stesso, la differenza di carico può portare a grandi differenze nel volume totale di lavoro
Serie x Ripetizioni x Carico (Volume Load – VL) Questo è il metodo più accurato di calcolo del volume di lavoro in quanto comprende tutte le variabili Può portare a risultati contrastanti in quanto con carichi leggeri in realtà il volume necessario per l’ipertrofia potrebbe essere maggiore rispetto all’uso di carichi pesanti

Nel panorama mondiale della ricerca relativa all’ipertrofia si incontrano svariate proposte di linee guida e i risultati sono piuttosto controversi in quanto sembra che si possano raggiungere grosso modo gli stessi risultati ricorrendo sia a singole serie allenanti per gruppo muscolare che a serie multiple (Krieger, 2010). Nell’articolo proposto  Schoenfeld, attraverso una meta-analisi, si è proposto di analizzare l’effetto che il volume, calcolato come numero di serie, può avere sulla crescita muscolare, senza tuttavia stabilire una soglia oltre la quale un aumento del volume possa diventare controproducente ai fini dell’ipertrofia. Infatti va notato che i dati erano insufficienti per determinare se più di 10 set settimanali per muscolo offrivano ulteriori benefici ipertrofici e, in tal caso, a quale punto esiste una soglia. Sebbene manchi di evidenze empiriche, è possibile che la relazione dose-risposta tra volume RT e ipertrofia muscolare segua una curva a forma di U invertita, per cui un volume RT eccessivo porterebbe a adattamenti negativi.

E’ stato scelto il numero di serie come metodo di calcolo del volume di lavoro perchè  il Volume Load (VL) risulta essere piuttosto impreciso in quanto l’evidenza sembra suggerire che serva un VL più elevato se si utilizzano carichi leggeri per massimizzare la risposta ipertrofica, al contrario con carichi elevati si possono raggiungere risultati significativi anche con VL minore.

Concludendo, sulla base della letteratura attuale, 10 o più set per muscolo a settimana sembrano essere un buon punto di partenza per programmare il volume ai fini ipertrofici. Il volume dovrebbe quindi essere manipolato in base alla risposta individuale. Detto questo, guadagni sostanziali possono comunque essere raggiunti con volumi pari a 4 o meno set (serie) per muscolo a settimana.

Dato che un allenamento costante con volumi elevati è stato ipotizzato che possa condurre al sovrallenamento, si può ritenere corretto che la periodizzazione del volume possa migliorare l’ipertrofia. Una combinazione di entrambi gli approcci ad alto e basso volume di lavoro potrebbe essere una strategia ottimale a lungo termine che consentirebbe una progressione costante. Quando ci si trova in un periodo in cui il volume è particolarmente elevato (es. 20 serie per muscolo), si potrebbe considerare di distribuire il volume totale in due sessioni di allenamento giornaliere separate. Poiché periodi di volume elevato nel RT non sono facilmente sostenibili per periodi lunghi, potrebbe anche essere incorporata una fase di scarico con volumi inferiori. È stato dimostrato che durante questi periodi una diminuzione del volume di allenamento del ~ 65% è sufficiente per il mantenimento e, in alcuni casi, anche per favorire aumenti della massa muscolare.

In chiusura di articolo Schoenfeld ci lascia con una proposta di periodizzazione del volume di allenamento per un macrociclo della durata di un anno.

 

Ipertrofia: quanto si dovrebbe riposare tra le serie?

Vorrei affrontare proprio l’argomento della domanda posta nel titolo dell’articolo in merito all’allenamento finalizzato all’ipertrofia, per fare ciò prendo spunto da un articolo di Schoenfeld. Sappiamo che ai fini della crescita muscolare gli stimoli fondamentali da somministrare al nostro corpo sono stress meccanici e stress metabolici, per cui quale sarebbe un giusto intervallo di recupera tra le serie durante l’allenamento per poter ottimizzare questi due parametri?

In generale, l’intervallo ottimale, almeno dal punto di vista della prassi ed esperenziale, sembrerebbe essere compreso tra i 60 e i 90 secondi tra un set e il successivo. A tal proposito Schoenfeld cita uno studio di Ahtiainen et al. (2005) in cui viene indagata la differenza tra differenti periodi di recupero inter-set, per la precisione tra 2 e 5 minuti. Questa ricerca ha molti punti di forza, in primis lo studio è stato condotto in crossover randomizzato, i soggetti esaminati erano persone esperte e ben allenate , inoltre, per misurare la crescita muscolare, si è fatto uso della modalità di imaging gold standard, la risonanza magnetica (MRI). L’unico problema di questo studio clinico è che i tempi di recupero minimi utilizzati (2 minuti) risultano essere superiori alle linee guida generali per l’allenamento contro resistenza, che come accennato in precedenza raccomandano periodi di recupero di circa 60/90 secondi. Periodi di recupero più brevi sappiamo che hanno un’influenza significativa sullo stress metabolico, per cui i tempi indicati nello studio potrebbero diminuire la risposta anabolizzante dello stimolo metabolico fornito.

Fatte queste precisazioni doverose, diamo un’occhiata ai risultati emersi. Lo studio in esame ha indicato che, nell’ambito dei tipici protocolli di allenamento per l’ipertrofia utilizzati nello studio, la durata dei tempi di recupero tra i set (2 o 5 minuti) non ha influenzato l’entità delle risposte ormonali e neuromuscolari acute o adattamenti dell’allenamento a lungo termine alla forza e alla massa muscolare nei soggetti maschi allenati inclusi nello studio.

Allenamento del core: isometrico o dinamico, cosa cambia?

plank - core stiffness

Spesso si parla di allenamento del core, ma quali sono i metodi più efficaci per allenarlo, e soprattutto perchè allenarlo? Attraverso uno studio di Lee e McGill proviamo a capire quali sono le differenze tra l’allenamento isometrico e quello dinamico.

Sebbene la rigidità (stiffness) del core migliori la qualità della prestazione atletica, esiste una controversia sull’efficacia dei metodi di allenamento del core isometrici rispetto a quelli dinamici. Questo studio mira a determinare se i cambiamenti a lungo termine nella stiffness possono essere allenati e, in tal caso, qual è il metodo più efficace.  Sono stati reclutati ventiquattro soggetti maschi per le misurazioni di stiffness passiva e attiva prima e dopo un protocollo di allenamento del core di 6 settimane. La stabilità della colonna vertebrale richiede sia stiffness passiva sia stiffness attiva: fondamentalmente la stiffness passiva è garantita dalle strutture legamentose ed ossee, mentre quella attiva è ata dalla co-contrazione muscolare.

plank - core stiffness Sono stati selezionati dodici soggetti principianti sia riguardo l’esercizio fisico sia l’allenamento del core. Gli altri 12 soggetti erano atleti esperti di Muay Thai. La stiffness passiva e la stiffness attiva sono state valutate attraverso appositi test dopo il protocollo di allenamento di 6 settimane. La stiffness passiva è aumentata dopo il protocollo di allenamento isometrico. L’allenamento dinamico ha prodotto un effetto minore e, come previsto, non c’è stato alcun cambiamento nel gruppo di controllo. La stiffness attiva, in sostanza, non è cambiata in nessun gruppo.

In conclusione, un approccio di allenamento isometrico è risultato essere superiore in termini di miglioramento della stiffness del core. Questo è importante poiché l’aumento della stiffness del core migliora la capacità di sostenere carichi pesanti, arresta o limita i micromovimenti dolorosi delle vertebre e migliora il movimento degli arti nei gesti  balistici. Ciò potrebbe spiegare anche l’efficacia dell’esercizio isometrico per il core per quanto riguarda la riduzione degli infortuni alla schiena e al ginocchio.

La sindrome da Overtraining: ecco le possibili cause

Si parla spesso di overtraining, sia per gli atlet, il contesto più naturale per questa sindrome, sia tra chi frequenta palestre e centri fitness, ma cos’è l’overtraining e quali sono le possibili cause? Per rispondere a queste, in apparenza semplici, domande riporto qui una guida di Kreher e Schwartz che fa un po’ il punto della situazione su questo tema.

La Sindrome da Overtraining (OverTraining Syndrome – OTS) sembra essere una risposta disadattata all’esercizio eccessivo senza un riposo adeguato, con conseguenti perturbazioni di sistemi corporei multipli (neurologici, endocrinologici, immunologici) uniti a cambiamenti dell’umore.

L’OTS in generale colpisce gli atleti in quanto essi si allenano fondamentalmente per aumentare le prestazioni. Gli aumenti delle prestazioni sono raggiunti aumentando i carichi di lavoro durante gli allenamenti. I carichi aumentati possono essere tollerati solo attraverso periodi intervallati di riposo e periodizzazione dell’allenamento di recupero. Questo aumento dei carichi conduce all’overreaching, che è considerato un accumulo di carico di allenamento che porta a decrementi delle prestazioni che richiedono giorni o settimane di recupero. L’overreaching seguito da un riposo appropriato può portare a un incremento delle prestazioni.  Tuttavia, se tale overreaching è estremo e combinato con fattori di stress aggiuntivo, può verificarsi la sindrome da sovrallenamento (OTS).

Di seguito una tabella riassuntiva con le definizioni e i termini individuati dall’European College of Sport Science.

Termini Sinonimi Definizione Decremento prestazioni Risultato
Functional overreaching (OF) Short-term overreaching Maggiore allenamento che porta a un decremento temporaneo delle prestazioni, ma prestazioni migliorate dopo adeguato riposo Giorni a settimane Positivo (super-compensazione)
Nonfunctional overreaching (NFO) Long-term overreaching Allenamento intenso che porta a un decremento delle prestazioni più lungo ma con pieno recupero dopo il riposo; accompagnato da un aumento dei sintomi psicologici e/o neuro-endocrinologici Settimane e mesi Negativo a causa di sintomi e perdita di tempo di allenamento
Overtraining syndrome (OTS) Coerente con quanto indicato per NFO ma con (1) decremento delle prestazioni più lungo (> 2 mesi), (2) sintomatologia più grave e fisiologia disadattata (psicologica, neurologica, endocrinologica, sistemi immunologici), (3) e un fattore di stress aggiuntivo non spiegato da altri malattia Mesi Negativo a causa di sintomi e possibile fine della carriera atletica

Alcuni ricercatori si riferiscono all’overtraining come sindrome da sottoperformance inspiegabile. La differenziazione tra NFO e OTS è clinicamente difficile da determinare e può essere fatta spesso solo dopo un periodo di riposo completo. La differenza tra i 2 si basa sul tempo di recupero e non necessariamente sul grado o sul tipo di sintomi. Di seguito una tabella che include i principali sintomi legati all’OTS.

Alterazioni parasimpatiche – comuni in sport aerobici Alterazioni simpatiche – comuni in sport anaerobici Altro
Fatica Insonnia Anoressia
Depressione Irritabilità Perdita di peso
Bradicardia Agitazione Mancanza di concentrazione mentale
Perdita di motivazione Tachicardia Muscoli pesanti, dolenti e rigidi
Ipertensione Ansia
Irrequietezza Riposo non ristoratore

Rapporti recenti evidenziano l’importanza degli stressors psicologici e/o sociali oltre allo stress fisiologico nello sviluppo di NFO o OTS. La capacità di stress di un individuo gioca un ruolo nello sviluppo di NFO o OTS.

Passiamo ad esaminare le principali teorie attualmente proposte dalla comunità scientifica riguardo l’eziologia dell’OTS.

Ipotesi del glicogeno

Bassi livelli di glicogeno muscolare possono compromettere le prestazioni a causa della scarsità di carburante in rapporto al carico di lavoro somministrato. Il basso contenuto di glicogeno muscolare provoca anche un aumento dell’ossidazione e una diminuzione delle concentrazioni di aminoacidi a catena ramificata. Questo può alterare la sintesi dei neurotrasmettitori centrali coinvolti nella fatica. Poiché i decrementi delle prestazioni e dell’affaticamento sono tratti distintivi dell’overtraining, la diminuzione del glicogeno muscolare potrebbe causare OTS.

Mentre questa associazione sembra plausibile, non è stata dimostrata in letteratura. Gli atleti che consumano quantità elevate di carboidrati e mantengono normali livelli di glicogeno possono comunque incorrere nella sindrome da sovrallenamento. Mentre i bassi livelli di glicogeno muscolare possono essere associati a stanchezza indotta dall’esercizio, perciò il legame di questa ipotesi con l’OTS appare debole.

Ipotesi della fatica centrale

OTS include quasi sempre disturbi dell’umore e del sonno.  Il neurotrasmettitore serotonina (abbreviata 5-HT) è implicata nella regolazione di queste funzioni; pertanto, le alterazioni della serotonina potrebbero portare a OTS. La 5-HT è derivata dal triptofano. Con l’esercizio, vi è un aumento del triptofano, che compete con gli amminoacidi a catena ramificata per l’ingresso nel cervello. L’esercizio diminuisce i livelli degli amminoacidi a catena ramificata a causa dell’aumentata ossidazione, favorendo l’ingresso di triptofano nel cervello e la conversione in 5-HT.

Gli aumenti del triptofano non legato sono stati correlati positivamente con la fatica, presumibilmente a causa dell’aumentata sintesi di serotonina nel cervello.  L’affaticamento negli atleti sovrallenati può essere dovuto ad una maggiore sensibilità alla serotonina piuttosto che al suo aumento.  Gli atleti ben allenati di solito sono meno sensibili al 5-HT; questo adattamento può essere perso in OTS.

Purtroppo pochi studi hanno effettivamente misurato l’attività del 5-HT in atleti troppo allenati. I cambiamenti dell’umore e la fatica sono soggettivi, difficili da misurare e influenzati da molti fattori confondenti. Pertanto, l’attività della serotonina richiede un’attenta interpretazione.

Ipotesi di glutammina

La glutammina è parte integrante della funzione delle cellule immunitarie, essa svolge anche un ruolo nella sintesi di DNA/RNA, trasporto dell’azoto, gluconeogenesi e equilibrio acido-base. Una riduzione della glutammina dopo l’esercizio può essere responsabile dell’aumento dell’incidenza delle infezioni del tratto respiratorio superiore negli atleti troppo allenati.

L’esercizio prolungato (> 2 ore) o esercizi ripetuti ad alta intensità possono transitoriamente ridurre le concentrazioni plasmatiche di glutammina. Le basse concentrazioni plasmatiche di glutammina sono state segnalate specificamente negli atleti sovrallenati. Ciò può rappresentare un sovrautilizzo e/o una diminuzione della produzione da parte dei muscoli affaticati.

Non è chiaro se la diminuzione della glutammina influenzi la funzione delle cellule immunitarie. In vitro, la funzione delle cellule immunitarie può essere compromessa quando le concentrazioni di glutammina sono inferiori ai livelli fisiologici. Nonostante le diminuite concentrazioni di glutammina dopo l’esercizio, la quantità di glutammina disponibile per le cellule immunitarie non necessariamente cambia.  La supplementazione di glutammina può ripristinare i livelli fisiologici ma non migliora la compromissione post-esercizio delle cellule immunitarie. Tuttavia, l’integrazione di glutammina può ridurre il tasso di infezione tra gli atleti.

Ipotesi dello stress ossidativo

Una certa quota di stress ossidativo è auspicabile che si verifichi durante l’esercizio fisico perché le specie reattive dell’ossigeno (ROS – radicali liberi) rilasciate dai muscoli danneggiati regolano la riparazione cellulare.  Quando lo stress ossidativo diventa patologico, tuttavia, le specie reattive dell’ossigeno (cioè superossido, perossido di idrogeno e radicale idrossile) possono causare infiammazione, affaticamento muscolare e indolenzimento con conseguente inibizione delle prestazioni atletiche.

I marcatori dello stress ossidativo sono più alti negli atleti sovrallenati rispetto ad atleti normo-allenati. Inoltre, i marcatori di stress ossidativo aumentano con l’esercizio negli atleti sovrallenati. La citrato sintasi riflette la capacità ossidativa e si prevede che aumenti durante l’allenamento di resistenza. Gli atleti in OTS possono avere diminuito le risposte allo stress indotto dall’esercizio ed essere più suscettibili al danno ossidativo.

Non è chiaro se l’aumentato stato di stress ossidativo sia un fattore predisponente o un risultato di OTS.

Ipotesi del sistema nervoso autonomo

Uno squilibrio nel sistema nervoso autonomo può spiegare alcuni sintomi di OTS. In particolare, una diminuita attivazione simpatica e una dominanza parasimpatica possono portare a inibizione delle prestazioni, affaticamento, depressione e bradicardia.

Una riduzione dell’attivazione simpatica negli atleti sovrallenati è supportata in alcuni studi dalla riduzione dell’escrezione notturna di catecolamina urinaria. L’ escrezione di catecolamina diminuisce con l’aumentare dell’affaticamento e ritorna ai livelli base durante il recupero.  Tuttavia, non tutti gli studi hanno trovato questa tendenza. Una diminuzione della sensibilità dell’organo alle catecolamine può anche essere responsabile dei sintomi di ridotta attivazione simpatica.

Anche la variabilità della frequenza cardiaca (HRV) è stata utilizzata come indicatore della funzione autonomica. Uno studio non ha mostrato differenze nell’HRV tra gli atleti sovrallenati e un gruppo di  controllo durante il sonno. Tuttavia, un HRV ridotto è stato osservato poco dopo il risveglio in atleti troppo allenati, suggerendo un aumento del tono simpatico. L’equilibrio tra le il sistema nervoso simpatico e parasimpatico può essere ripristinato dopo una settimana di riposo.

Ipotesi ipotalamica

Alterazioni nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e ipotalamo-ipofisi-gonadi possono essere responsabili di OTS. Gli atleti di resistenza possono mostrare lievi cambiamenti nella funzione dell’asse HPA e gli atleti sovrallenati possono avere alterazioni nel cortisolo, nell’ormone adrenocorticotropo, nel testosterone e in altri livelli ormonali. Sfortunatamente, i dati attuali sono contraddittori riguardo ai modelli di questi cambiamenti ormonali. Le alterazioni dell’asse HPA e dell’ipotalamo-ipofisi-gonadi sono individualizzate e dipendono da altri fattori, tra cui la capacità di esercizio, la vulnerabilità intrinseca agli stress e altri livelli ormonali.

Ipotesi delle citochine

Nessuna singola ipotesi spiega tutti gli aspetti di OTS. L’ipotesi delle citochine suggerisce che l’OTS sia un adattamento (o meglio un maladattamento) fisiologico all’eccesso di stress avviato da uno squilibrio tra allenamento e tempi di recupero.

La contrazione muscolare (sia eccentrica che concentrica) e i movimenti articolari ripetitivi causano microtraumi ai tessuti. L’adattamento attraverso la guarigione e il rafforzamento dei tessuti avviene attraverso l’attivazione di una risposta infiammatoria locale e il reclutamento di citochine. Con un allenamento intenso continuato e l’assenza di un riposo adeguato, questa risposta infiammatoria può essere amplificata, per cui potrebbe cronicizzare ed evolvere in patologia.  Alla fine può verificarsi una risposta infiammatoria sistemica con conseguenze negative in tutto il corpo. Le citochine implicate in OTS includono interleuchina-1-beta (IL-1b), IL-6 e fattore di necrosi tumorale a (TNF-α).

Conclusioni

Attualmente nessuna delle teorie sopra esposte è esente da fattori di debolezza che ne mettono in discussione la sicura correlazione con la sindrome da overtraining, per cui nessuna di queste ipotesi può, da sola, spiegare un fenomeno così complesso come l’OTS.

L’OTS è una sindrome multifattoriale e solamente l’insieme delle possibili cause analizzate in questo articolo sembra poter spiegare questo fenomeno, la sinergia tra i diversi fattori e la loro concomitante azione sugli apparati psicologici, endocrinologici, neurologici, fisiologici potrebbero indurre l’OTS negli atleti.

Differenze tra resistance training ad alta frequenza vs. bassa frequenza

Da qualche tempo si parla di quale approccio sia più produttivo per l’ipertrofia muscolare, se una routine ad alta frequenza (HFRT – High Frequency Resistance Training) o a bassa frequenza (LFRT – Low Frequency Resistance Training). Uno studio davvero interessante è quello che presento ora, condotto da Gomes (2018) e apparso su Journal of Strength and Conditioning Research.

I ricercatori hanno voluto indagare se ci fossero significative differenze in termini di aumento della massa muscolare e della forza in due gruppi sottoposti a differenti frequenze di Resistance Training. Per fare ciò sono stati selezionati 23 soggetti maschi con età compresa tra i 18 e i 32 anni, ben allenati e che presentavano livelli di forza nel back squat di circa il 165% di peso corporeo e distensione su panca di ~ 130% del peso corporeo e li hanno randomizzati in 2 gruppi (HFRT e LFRT), inoltre i soggetti selezionati avevano una esperienza di allenamento di almeno 3 anni.

Entrambi i gruppi si sono allenati dal lunedì al venerdì e hanno eseguito gli stessi 11 esercizi con la stessa intensità (70-80% di 1RM con un range di 8-12 ripetizioni) e la stessa quantità di set (10 per gruppo muscolare , 5 set solo per curl con bilanciere ed triceps extension con 90” di recupero tra i set) fino al cedimento muscolare per 8 settimane, ma il gruppo a bassa frequenza ha eseguito uno split in cui ogni muscolo doveva essere allenato una volta alla settimana, mentre il gruppo ad alta frequenza eseguiva tutti gli esercizi del programma in ogni sessione di allenamento.

Il protocollo di lavoro lo potete vedere nella seguente infografica tratta da Bayesan Bodybuilding:

resistance training

Ecco i risultati e alcuni dati importanti della ricerca, presento qui i più significativi:

  • I partecipanti non presentavano differenze significative all’inizio dello studio.
  • L’aderenza al protocollo di lavoro è stata praticamente perfetta in entrambi i gruppi.
  • Non vi sono state significative differenze nella dieta dei partecipanti.
  • Il gruppo LFRT mostrava più DOMS in seguito alle sedute di allenamento.
  • Il gruppo HFRT è stato in grado di svolgere un volume maggiore di allenamento nel corso delle settimane, in quanto il tonnellaggio per ogni singolo esercizio è stato superiore rispetto al gruppo LFRT.
  • Non vi sono state significative differenze in termini di guadagno di massa muscolare e di forza, entrambi i gruppi hanno evidenziato miglioramenti sia riguardo la massa magra (FFM) sia riguardo la forza muscolare.

In conclusione dallo studio emerge che non vi sono differenze significative, a parità di volume, tra HFRT e LFRT in soggetti ben allenati. Come era emerso in una meta-analisi di Schoenfeld (2017), un volume di 10 set a settimana per gruppo muscolare è sufficiente ai fini dell’ipertrofia indipendentemente dalla loro distribuzione settimanale. Dall’altro lato però, LFRT tende a produrre più dolori muscolari successivi alla seduta di allenamento (DOMS), potendo così incidere negativamente sulle performance. Inoltre LFRT indurrebbe un maggior affaticamento del distretto muscolare allenato, così da condurre ad una diminuzione del volume di lavoro durante la seduta di allenamento.  conclusione HFRT è un modo efficace per ridurre il dolore muscolare senza limitare la crescita muscolare o lo sviluppo della forza.

L’intensità dell’allenamento influenza l’ossidazione lipidica

L’intensità dell’esercizio in cui è massima l’ossidazione lipidica (MFO) è stata individuata tra il 45-75% VO2max (tra il 66 e l’85% della Fcmax circa). Fattori come lo stato di allenamento, il sesso e la nutrizione hanno tutti un impatto sull’ossidazione degli acidi grassi e sull’intensità dell’esercizio in cui è massima la MFO. L’intensità dell’esercizio ha l’effetto più profondo sulla MFO sulla base di una combinazione di eventi che includono i cambiamenti di trasporto di acidi grassi e la fluttuazione ormonale, che può contribuire ad aumentare il tasso lipolitico. I cambiamenti cellulari e ormonali che si verificano durante l’esercizio sono direttamente correlati all’intensità dell’esercizio.

L’ossidazione degli acidi grassi (FA) varia in base all’intensità dell’esercizio e pertanto è necessario esaminare l’ossidazione lipidica a intensità di esercizio specifiche. Al 25% di VO2max, l’ossidazione degli acidi grassi contribuisce per oltre il 90% al dispendio energetico e in particolare gli FA plasmatici forniscono il maggior contributo energetico, mentre il glicogeno muscolare e i trigliceridi intramuscolari (IMTG) contribuiscono molto poco. A intensità di esercizio superiori al 65% VO2max il contributo del glicogeno muscolare e dell’ossidazione degli IMTG fornisce fino al 50% del dispendio energetico.

Bergomaster et al. (2008) suggerisce che è necessario un volume minimo di allenamento di due settimane, indipendente dallo stato di allenamento, in modo che si verifichi un sufficiente adattamento cellulare. L’intensità dell’esercizio può influenzare ulteriormente la MFO influenzando le concentrazioni di catecolamine che hanno effetti regolatori sulla lipolisi, sulla glicogenolisi e sulla gluconeogenesi. Le aumentate concentrazioni di adrenalina che aumentano parallelamente nell’intensità dell’esercizio stimolano sia la glicogenolisi che la gluconeogenesi. Con l’aumentare dell’intensità dell’esercizio, aumentano anche le concentrazioni di catecolamine che facilitano un concomitante aumento di carboidrati e FA sierici nel sangue. Tuttavia, il corpo favorisce ancora l’ossidazione lipidica a intensità di esercizio inferiori al 65% VO2max. Quando l’intensità dell’esercizio supera la MFO, l’ossidazione degli acidi grassi inizia a declinare in favore di un maggior contributo energetico da parte dei carboidrati. Le limitazioni del FAox a intensità più elevate sono dovute alla grande quantità di acetil-CoA prodotta dalla glicolisi rapida. Il brusco aumento della produzione totale di acetil-CoA ad alta intensità è dovuto alla rapida glicolisi che inonda la cellula, sopprimendo il potenziale di trasporto mitocondriale degli FA con conseguente diminuzione della FAox. Comunque la massima ossidazione lipidica si verifica in tutte le popolazioni indipendentemente dallo stato di allenamento, dall’influenza nutrizionale, ecc. La MFO è decisamente dettata in gran parte dall’intensità dell’esercizio.

L’influenza dello stato di allenamento sull’ossidazione dei grassi

Il mantenimento di uno stato di allenamento elevato influisce sul potenziale di ossidazione degli acidi grassi dovuto all’aumento di trigliceridi intramuscolari, ai cambiamenti delle proteine cellulari e mitocondriali e alla regolazione ormonale. Gli adattamenti che si verificano a causa di un regolare allenamento di resistenza favoriscono la capacità di ossidare il grasso a carichi di lavoro più elevati. Bircher e Knechtle (2004) hanno dimostrato questo concetto confrontando soggetti obesi sedentari con atleti e hanno scoperto che la massima capacità di ossidazione dei grassi (MFO) era altamente correlata con la capacità respiratoria e quindi lo stato di allenamento.

L’effetto dell’allenamento e quindi un aumento della capacità respiratoria è parzialmente il risultato di un aumento della MFO. Scharhag-Rosenberger et al. (2010) hanno condotto uno studio prospettico per dimostrare questo concetto utilizzando 17 soggetti sedentari che hanno eseguito le raccomandazioni di esercizio metabolico minimo previste da ACSM per un periodo di 1 anno. Tali indicazioni consistevano in 3 sessioni a settimana di jogging o camminata della durata di 45 minuti ciascuna al 60% della riserva di FC. Il tasso di ossidazione massima del grasso è aumentato dopo 12 mesi di allenamento (pre-allenamento 0,26 ± 0,10, post-allenamento 0,33 ± 0,12 g / min) e si è verificato a intensità di esercizio più elevata (pre-allenamento 35 ± 6% VO2max; allenamento 50 ± 14% VO2max). L’effetto dello stato di allenamento sulla MFO si applica anche alle popolazioni atletiche. Inoltre, gli enzimi mitocondriali sono risultati significativamente aumentati in partecipanti altamente allenati rispetto a quelli moderatamente allenati. L’aumento di HAD aumenta direttamente la velocità di beta-ox mentre la citrato sintasi aumenta la velocità del ciclo di Krebs. Aumentare il potenziale ossidazione lipidica (FAox) aumentando la capacità di respirazione cellulare aumenta la FAox a intensità di esercizio più elevate che possono avere un’influenza positiva sulla capacità aerobica.

Infine, lo stato di allenamento influenza ulteriormente il potenziale ossidativo del grasso massimo aumentando le concentrazioni di substrato endogeno. L’allenamento di resistenza migliora le concentrazioni di trigliceridi intramuscolari (IMTG) delle fibre di tipo I fino a tre volte rispetto alle fibre di tipo II. Durante l’esercizio, il pool IMTG viene costantemente reintegrato con acidi grassi derivati ​​dal plasma durante l’esercizio. Nondimeno, la dipendenza degli IMTG durante le durate degli esercizi submassimali della durata <2 ore è essenziale per il mantenimento dei carichi di lavoro.

Ottimizzare il consumo di grassi attraverso l’esercizio fisico

Una delle richieste più frequenti negli ambienti delle palestre è la gestione e la perdita di peso. Esistono dei parametri su cui potersi basare per poter creare un programma di allenamento efficiente che possa massimizzare l’ossidazione, ossia il consumo, dei grassi? Sembrerebbe di si, almeno stando a quanto affermato da una ricerca di Achten et al. (2004).

Da questa ricerca è emerso che gli interventi volti a migliorare il metabolismo dei grassi potrebbero potenzialmente ridurre i sintomi delle malattie metaboliche come l’obesità e il diabete di tipo 2 e potrebbero avere un’enorme importanza clinica.

Perciò la comprensione dei fattori che aumentano o diminuiscono l’ossidazione dei grassi è importante. Due fattori determinanti dell’ossidazione dei grassi sono l’intensità e la durata dell’esercizio.

Come già risaputo i tassi di ossidazione dei grassi aumentano da intensità basse a moderate e poi diminuiscono quando l’intensità diventa alta.

Ma a questo punto sono anche stati quantificati i parametri fisici per stabilire l’intensità ottimale ed è stato dimostrato che le percentuali massime di ossidazione dei grassi sono raggiunte a intensità comprese tra il 59% e il 64% del consumo massimo di ossigeno (corrispondente a una FCmax compresa tra il 72% e il 77%) in individui allenati e tra il 47% e il 52% (corrispondente a una FCmax compresa circa tra il 63% e il 68%) del consumo massimo di ossigeno in un ampio campione della popolazione generale.

La modalità di esercizio può anche influenzare l’ossidazione dei grassi, con l’ossidazione dei grassi più elevata durante la corsa rispetto al ciclismo. L’allenamento di resistenza induce una moltitudine di adattamenti che si traducono in una maggiore ossidazione dei grassi.

E’ stata anche indagata l’influenza dell’alimentazione sul tasso di ossidazione dei grassi e si è scoperto che l’ingestione di carboidrati nelle ore precedenti o all’inizio dell’esercizio riduce il tasso di ossidazione dei grassi in modo significativo rispetto alle condizioni di digiuno, mentre il digiuno più lungo di 6 ore ottimizza l’ossidazione dei grassi.

È stato dimostrato che i tassi di ossidazione dei grassi diminuiscono dopo l’ingestione di diete ad alto contenuto di grassi, in parte a causa della diminuzione delle riserve di glicogeno e in parte a causa degli adattamenti a livello muscolare.

Riassumendo, da questa ricerca emergono due parametri da poter tenere in considerazione quando si stende un piano di allenamento con l’obiettivo del miglioramento dell’ossidazione dei grassi:

  1. Il VO2max dovrebbe essere compreso tra i parametri indicati in precedenza. In questo caso risulta molto più semplice monitorare la Frequenza Cardiaca, basandosi sulla relazione tra VO2max e FC, come già sottolineato.
  2. Il digiuno nelle ore precedenti l’allenamento è risultato essere un parametro facilitante il raggiungimento dell’obiettivo prefissato.

Perchè lavorare con un Personal Trainer?

Allenarsi con un Personal Trainer offre davvero risultati tangibili? Dalla ricerca di Storer et al. (2014), presentata qui sotto, sembrerebbe di si, anche se sono evidenti alcune lacune metodologiche nello studio condotto. Di sicuro allenarsi con un PT esperto e preparato offre numerosi vantaggi che non tratterò qui, ma di cui vorrei parlare dedicando prossimamente un articolo a parte. In conclusione sarebbe però auspicabile approfondire meglio l’argomento con ulteriori ricerche.

OBIETTIVO DELLO STUDIO: l’obiettivo primario dello studio era valutare i cambiamenti della massa magra dei soggetti studiati comparando chi si sarebbe allenato con un PT e chi si sarebbe allenato in autonomia,  inoltre si sono voluti indagare i miglioramenti sui cambiamenti della forza, delle dimensioni muscolari e della massima capacità aerobica nei soggetti facenti parte dello studio. I soggetti erano maschi sani, di età compresa tra 30 e 40 anni, che si erano allenati 5 – 7 giorni al mese in palestra per i 3 mesi precedenti.

ALLENAMENTO: tutti i soggetti sono stati allenati per 12 settimane con l’obiettivo di aumentare la massa muscolare. un gruppo lavorava con un personal trainer (3 volte a settimana) e l’altro gruppo no. La routine di allenamento era così composta: per il gruppo che si sarebbe allenato con un PT (TRAINED), il PT avrebbe selezionato la tipologia di esercizio, l’intensità e la durata dell’allenamento, mentre il gruppo che si sarebbe allenato autonomamente (SELF) avrebbe scelto in proprio come impostare i parametri della seduta allenante. Ciò costituisce senz’altro un punto critico della ricerca, in quanto i due gruppi, TRAINED e SELF, non sono stati sottoposti alla stessa routine di allenamento, dall’altro lato però potrebbe anche evidenziare il fatto che essere seguiti da un PT professionista sia un valore aggiunto in quanto porterebbe ad un piano di allenamento più mirato e meglio strutturato in grado di risultare più efficace nei confronti degli obiettivi prefissati.

COSA E’ STATO MISURATO:

  • forza massima alla chest press 1RM e alla leg press 1RM;
  • potenza prodotta in un salto verticale con contromovimento, rilevato con un tappetino elettronico;
  • massa magra corporea, massa magra appendicolare e massa grassa mediante DEXA;
  • massima capacità aerobica (VO2-max) mediante un protocollo tapis roulant incrementale, con un sistema di misurazione metabolica portatile.

RISULTATI: il gruppo che lavorava con un personal trainer raggiunse guadagni di forza e incrementi di massa magra corporea in misura significativamente maggiore nella parte superiore del corpo, e inoltre tendeva ad ottenere guadagni di forza della parte inferiore del corpo in misura maggiore. Solo i soggetti che lavorano con un personal trainer incrementarono la capacità aerobica massima, ma entrambi i gruppi hanno perso grasso corporeo durante il periodo di allenamento. Il tempo dedicato settimanalmente alle sedute di allenamento è stato abbastanza simile in quanto il gruppo TRAINED si è allenato in media per circa 150 minuti a settimana mentre il gruppo SELF per circa 172 minuti.

Bisogna però precisare che poiché i due gruppi hanno seguito diversi programmi, non è chiaro se i risultati superiori ottenuti lavorando con un personal trainer siano stati causati dalla programmazione utilizzata o dal supporto fornito lavorando di persona con un esperto di fitness.

Immagine di Strenght and Conditioning Research