La variabilità cardiaca: misure nel dominio del tempo e della frequenza – seconda parte

Citando un articolo di F. Shaffer e J. P. Ginsberg (2017) ho già parlato di variabilità cardiaca (HRV) nel precedente articolo, in questo vorrei approfondire gli indici sia nel dominio del tempo che nel dominio della frequenza.

Vorrei iniziare parlando degli indici nel dominio del tempo, prima però vorrei fare una breve premessa. Poichè, come anticipato nell’articolo precedente, in campo sportivo, per motivi di praticità, si preferiscono effettuare misurazioni  breve o ultra-breve termine, non tutte le metriche della variabilità cardiaca risultano essere rilevanti, infatti alcuni indici esprimono meglio di altri le fluttuazioni organiche circadiane, per cui diventano accurati solo se monitorati per 24 h, ad esempio il SDRR (deviazione standard tra ogni battito) è più accurato quando calcolato su 24 ore perché questo periodo più lungo rappresenta meglio i processi più lenti e la risposta del sistema cardiovascolare a stimoli ambientali e carichi di lavoro  diversi. Gli indici principali che prenderemo in considerazione nel dominio del tempo per il monitoraggio della variabilità cardiaca sono: SDNN, RMSSD, NN50, pNN50.

SDNN (Standard Deviation of the IBI of normal sinus beats – deviazione standard degli intervalli interbattiti dei battiti sinusali normalizzati), innanzitutto “normalizzati” sta a significare che i battiti anormali, come i battiti ectopici, sono stati rimossi, quindi vengono eliminati gli artefatti per otenere un segnale più pulito. Sia l’attività del sistema nervoso simpatico (SNS) che quella del sistema nervoso parasimpatico (PNS) contribuiscono all’SDNN ed è altamente correlata con l’ULF, la potenza della banda VLF e LF e la potenza totale. Nelle registrazioni a riposo a breve termine, la fonte primaria della variazione è l’aritmia sinusale respiratoria (RSA) mediata dal PNS.

L’SDNN è più accurato se calcolato su 24 ore rispetto ai periodi più brevi. Periodi di registrazione più lunghi forniscono dati sulle reazioni cardiache a una gamma più ampia di stimolazione ambientale. Oltre alla regolazione cardio-respiratoria, periodi di misurazione prolungati possono indicizzare la risposta del cuore ai carichi di lavoro in evoluzione, l’attività nervosa centrale anticipatoria che coinvolge il condizionamento classico dei processi circadiani, compresi i cicli sonno-veglia. Le registrazioni di 24 ore rivelano il contributo SNS alla variabilità cardiaca. L’SDNN è il “gold standard” per la stratificazione medica del rischio cardiaco se registrato su un periodo di 24 ore. I valori di SDNN predicono sia la morbilità che la mortalità. Sulla base del monitoraggio a 24 ore, i pazienti con valori SDNN inferiori a 50 ms sono classificati come non sani, 50-100 ms hanno una salute compromessa e oltre 100 ms sono sani.

NN50 rappresenta il numero di intervalli NN adiacenti (ovvero il numero di battiti normalizzati adiacenti) che differiscono l’uno dall’altro di oltre 50 ms richiede un periodo di registrazione di almeno 2 minuti.

pNN50 indica la percentuale di intervalli NN adiacenti che differiscono l’una dall’altra di più di 50 ms. Il pNN50 è strettamente correlato con l’attività PNS.

RMSSD (Root Mean Square of Successive Differences between normal heartbeats), un valore basso di RMSSD è indice di una scarsa attività parasimpatica e di difficoltà nel recupero da uno sforzo fisico o da una situazione ad elevato stress emotivo. L’RMSSD si ottiene calcolando dapprima ciascuna differenza temporale successiva tra i battiti cardiaci in ms. Quindi, ciascuno dei valori è elevato al quadrato e viene calcolata la media dei risultati prima che venga ottenuta la radice quadrata del totale.

In merito alle misurazioni nel dominio della frequenza, assumono particolare risalto soprattutto 3 indici il LF, l’HF e il LF/HF ratio.

La potenza della banda LF (0,04-0,15 Hz) può essere prodotta sia dal PNS che dal SNS e dalla regolazione della pressione arteriosa tramite barocettori. L’SNS non sembra produrre ritmi molto superiori a 0,1 Hz, mentre il sistema parasimpatico può essere osservato per influenzare i ritmi cardiaci fino a 0,05 Hz. In condizioni di riposo, la banda LF riflette l’attività del baroriflesso e non l’innervazione simpatica cardiaca. Durante i periodi di bassa frequenza respiratoria, l’attività vagale può facilmente generare oscillazioni nei ritmi cardiaci che si incrociano nella banda LF. Pertanto, le influenze vagali mediate da efferenze respiratorie sono particolarmente presenti nella banda LF quando i tassi di respirazione sono inferiori a periodi di 8,5 bpm (respiri per minuto) o 7 s.

La banda HF (0,15-0,40 Hz) riflette l’attività parasimpatica ed è chiamata banda respiratoria perché corrisponde alle variazioni di FC relative al ciclo respiratorio. Questi cambiamenti di FC fasici sono noti come RSA e potrebbero non essere un indice puro di controllo vagale cardiaco. La frequenza cardiaca accelera durante l’inspirazione e rallenta durante l’espirazione.

Durante l’inalazione, il centro cardiovascolare inibisce il deflusso vagale con conseguente accelerazione dell’HR. Al contrario, durante l’espirazione, ripristina l’uscita vagale con conseguente rallentamento della FC. Il blocco vagale totale elimina virtualmente le oscillazioni HF e riduce la potenza nell’intervallo LF.

La potenza ad alta frequenza è fortemente correlata con le misure del dominio temporale pNN50 e RMSSD. La potenza della banda HF può aumentare durante la notte e diminuire durante il giorno. Una potenza HF inferiore è correlata a stress, panico, ansia o preoccupazione.

Il rapporto tra la potenza LF e HF (LF / HF ratio) era originariamente basato su registrazioni a 24 ore, durante le quali sia l’attività PNS che quella SNS contribuiscono alla potenza LF, e l’attività PNS contribuisce principalmente alla potenza HF. L’intento era di stimare il rapporto tra attività SNS e PNS.

Le ipotesi alla base del rapporto LF / HF è che la potenza LF può essere generata dall’SNS mentre la potenza HF è prodotta dal PNS. In questo modello, un basso rapporto LF / HF riflette la dominanza parasimpatica. Questo è visto quando l’organismo è in condizioni di riposo e di rigenerazione. Al contrario, un alto rapporto LF / HF indica una posizione dominante simpatica, che si verifica quando ci si imbatte in comportamenti di attacco-fuga o di abbassamento del tono parasimpatico.

Tuttavia alcuni studiosi, come Billman, hanno sfidato questa convinzione che il rapporto LF / HF misuri “l’equilibrio simpatico-vagale”. Innanzitutto, la potenza LF non è un indice puro del SNS. La metà della variabilità in questa banda di frequenza è dovuta al PNS e una proporzione minore è prodotta da fattori non specificati. In secondo luogo, le interazioni tra PNS e SNS sono complesse, non lineari e spesso non reciproche. Terzo, la confusione con la meccanica della respirazione e la frequenza cardiaca a riposo crea incertezza riguardo ai contributi di PNS e SNS al rapporto LF / HF durante il periodo di misurazione.

Introduzione alla variabilità cardiaca – prima parte

La variabilità della frequenza cardiaca, anche detta variabilità cardiaca (Heart Rate Variability – HRV), negli ultimi tempi, sta assumendo un ruolo di tutto rispetto nel monitoraggio degli atleti nella performance sportiva. Da sempre, infatti, uno dei problemi principali nell’allenamento è stato il monitoraggio dei carichi di lavoro, il fisico del nostro atleta è in grado di reggere il volume di lavoro proposto in allenamento? L’organismo riesce a sopportare le intensità previste dai piani di lavoro? Il tempo a disposizione dell’atleta è sufficiente a recuperare tra una sessione di allenamento e la successiva?

A tutte queste domande bisogna dare una risposta se non si vuole andare incontro a problemi legati al sovrallenamento, per fare ciò sono necessari dei marker biologici che siano in grado di indicare il livello di stress a cui l’organismo è sottoposto e come esso risponde alle sollecitazioni proposte.

Tra i vari parametri che si possono utilizzare, la variabilità cardiaca è uno di quelli che ci potrebbe fornire utili indicazioni. Per approfondire il tema riporterò di seguito alcuni dati presi da uno studio di F. Shaffer e J. P. Ginsberg (2017).

Bisogna per prima cosa chiarire che i sistemi viventi sani sono anche adattabili, l’adattamento consiste anche nel poter modulare i propri processi interni in base agli stimoli sia interni che esterni e al contempo attivare processi biochimici in grado di ristabilire l’omeostasi fisiologica. A questo punto partiamo nel definire cos’è la variabilità cardiaca, essa consiste in variazioni degli intervalli di tempo tra i battiti cardiaci consecutivi chiamati intervalli interbattiti (InterBeat Interval – IBI). 

Ad esempio il cuore non può essere accomunato ad un metronomo, ovvero esso non presenta battiti costanti e regolari, ma l’intervallo tra battiti consecutivi varia ed è costantemente modulato in modo tale da poter essere sempre pronto a rispondere correttamente agli stimoli siano essi stimoli inibitori che eccitatori. La variabilità cardiaca riflette la regolazione del sistema nervoso autonomo, della pressione arteriosa, dello scambio gassoso, dell’intestino, del cuore e del tono vascolare. Per cui, se un sistema sano è anche adattabile e complesso, lo stesso sistema biologico in condizioni di malattia potrebbe perdere o aumentare la sua complessità a discapito di una minore adattabilità, infatti le oscillazioni di un cuore sano sono complesse e in costante cambiamento e consentono al sistema cardiovascolare di adattarsi rapidamente alle improvvise sfide fisiche e psicologiche.

Ad oggi, per indagare la variabilità cardiaca facciamo ricorso a monitoraggi a di 24 ore, oppure a breve termine (circa 5 minuti) o a ultra-breve termine (<5 minuti).

Poiché le epoche di registrazione più lunghe rappresentano meglio i processi con fluttuazioni più lente (ad esempio ritmi circadiani) e la risposta del sistema cardiovascolare a una gamma più ampia di stimoli ambientali e carichi di lavoro, i valori a breve e ultra-breve termine non sono intercambiabili con i valori di 24 h.

Per analizzare i dati HRV si fa generalmente riferimento a indici relativi al dominio del tempo e ad indici riferiti al dominio della frequenza. Gli indici del dominio del tempo misurano il periodo di tempo tra i battiti cardiaci consecutivi, mentre gli indici del dominio della frequenza stimano la distribuzione della potenza assoluta o relativa in quattro bande di frequenza. Queste 4 bande di frequnza sono così suddivise: la banda Ultra-Low frequency ULF (≤0.003 Hz) indicizza le fluttuazioni negli intervalli interbattiti con un periodo compreso tra 5 minuti e 24 ore e viene misurata usando registrazioni a 24 ore. La banda Very- Low Frequency VLF (0.0033-0.04 Hz) è composta da ritmi con periodi tra 25 e 300 s. La banda Low Frequency LF (0,04-0,15 Hz) è composta da ritmi con periodi tra 7 e 25 secondi ed è influenzata dalla respirazione da circa 3 a 9 bpm (breaths per minute – respiri al minuto). L’ High Frequency HF (0,15-0,40 Hz) è influenzata anch’essa dalla respirazione da 9 a 24 bpm. Il rapporto tra LF e HF (rapporto LF / HF) può stimare il rapporto tra il sistema nervoso simpatico (SNS) e l’attività del sistema nervoso parasimpatico (PNS) in condizioni controllate. La potenza totale è la somma dell’energia nelle bande ULF, VLF, LF e HF per 24 ore e nelle bande VLF, LF e HF per registrazioni a breve termine.

Per quanto concerne il monitoraggio degli atleti, ci occuperemo solamente degli indici che possono essere ricavati dalle registrazioni a breve termine in quanto si vuole indagare soprattutto lo stato di equilibro tra SNS e PNS e inoltre la misurazione è più semplice e pratica da effettuare. Due processi distinti ma sovrapposti influenzano le misurazioni HRV a breve termine. La prima fonte è una relazione complessa e dinamica tra i rami simpatico e parasimpatico. La seconda fonte include i meccanismi regolatori che controllano le HR attraverso l’aritmia sinusale respiratoria (RSA, non è altro che un’aritmia fisiologica dovuta all’aumento e alla diminuzione della pressione intra-toracica durante gli atti respiratori, in conseguenza dei quali durante l’inspirazione la FC aumenta, mentre durante l’espirazione la FC tende a diminuire), il riflesso barocettore e le variazioni ritmiche nel tono vascolare.

In un cuore umano sano, esiste una relazione dinamica tra PNS e SNS. Il controllo PNS predomina a riposo. I nervi parasimpatici esercitano i loro effetti più rapidamente (<1 s) rispetto ai nervi simpatici (> 5 s). Poiché questi due sistemi possono produrre azioni contraddittorie, come accelerare e rallentare il cuore, il loro effetto su un organo dipende dal loro momentaneo equilibrio di attività. Mentre l’SNS può sopprimere l’attività PNS, allo stesso tempo potrebbe anche aumentarne la reattività. Un’aumentata attività PNS può essere associata a una diminuzione, a un aumento o a nessuna modifica dell’attività SNS. Ad esempio, subito dopo l’esercizio aerobico, il recupero delle risorse umane comporta la riattivazione della PNS mentre l’attività SNS rimane elevata.

Ipertrofia: il punto di vista di Schoenfeld

L’ipertrofia, ovvero la crescita muscolare, è sempre l’obiettivo principe del “palestrato”, ma anche dell’uomo comune che va in palestra per prepararsi all’estate o della donna che cerca di “tonificare” i propri glutei; in ciascuno di questi casi stiamo sempre parlando di ipertrofia.

Ma quale è il volume ottimale per allenarsi? Quante serie bisogna fare per far crescere un determinato gruppo muscolare?

In un recente articolo apparso su Strenght and Conditioning Journal (2017) Schoenfeld analizza quello che secondo lui è il volume di allenamento ideale per un obiettivo di crescita muscolare ottimale. Schoenfeld è uno dei massimi esperti mondiali di ipertrofia e, anche se sappiamo, che l’opinione degli esperti nella piramide delle evidenze scientifiche è solo alla base, quindi gode di scarsa rilevanza, è pur sempre una utile indicazione dalla quale partire o almeno prendere spunto.

Schoenfeld nel suo articolo parte dalla constatazione che il miglior allenamento per raggiungere l’ipertrofia sia l’allenamento contro resistenza (Resistance Training) e la differente combinazione delle sue molteplici variabili: serie, ripetizioni, carico, TUT, …

La manipolazione delle variabili del Resistance Training (RT) è ampiamente considerata una strategia essenziale per massimizzare gli adattamenti muscolari indotti dall’esercizio fisico. Una variabile RT che ha ricevuto molta attenzione a questo riguardo, in particolare per quanto riguarda il miglioramento dell’ipertrofia muscolare, è il volume di allenamento. Il volume RT è comunemente definito come la quantità totale di lavoro svolto e può essere espresso in diversi modi. Il numero di serie eseguite per un determinato esercizio è forse il modo più comune in cui questa variabile è riportata nella letteratura sull’ipertrofia. Un altro metodo popolare per quantificare il volume RT è il numero totale di ripetizioni eseguite per esercizio (cioè serie moltiplicate per ripetizioni). Infine, il carico volumetrico, o tonnellaggio, è stato proposto da alcuni come la metrica più appropriata, per cui il numero totale di ripetizioni è moltiplicato per la quantità di peso utilizzata in un esercizio durante le varie serie allenanti. Tutti questi metodi di misurazione del volume possono essere considerati modi validi per misurare il volume nel RT dal momento che attualmente non esiste alcun consenso in merito a una metodologia di misurazione definitiva. Supponendo che tutte le altre variabili siano mantenute costanti, l’aumento del volume aumenterà necessariamente il tempo di sotto tensione (TUT – Time Under Tension), che è stato proposto come un importante fattore di anabolismo.

Metodo di calcolo Pro Contro
Numero di serie E’ il metodo più semplice per calcolare il volume di lavoro Piuttosto impreciso in quanto non considera né il numero di ripetizioni né il carico adottato
Serie x Ripetizioni Paragonato al “Numero delle serie”, questo metodo aggiunge molte più informazioni riguardo il carico di lavoro Non tenendo in considerazione il carico, anche se il numero di ripetizioni è lo stesso, la differenza di carico può portare a grandi differenze nel volume totale di lavoro
Serie x Ripetizioni x Carico (Volume Load – VL) Questo è il metodo più accurato di calcolo del volume di lavoro in quanto comprende tutte le variabili Può portare a risultati contrastanti in quanto con carichi leggeri in realtà il volume necessario per l’ipertrofia potrebbe essere maggiore rispetto all’uso di carichi pesanti

Nel panorama mondiale della ricerca relativa all’ipertrofia si incontrano svariate proposte di linee guida e i risultati sono piuttosto controversi in quanto sembra che si possano raggiungere grosso modo gli stessi risultati ricorrendo sia a singole serie allenanti per gruppo muscolare che a serie multiple (Krieger, 2010). Nell’articolo proposto  Schoenfeld, attraverso una meta-analisi, si è proposto di analizzare l’effetto che il volume, calcolato come numero di serie, può avere sulla crescita muscolare, senza tuttavia stabilire una soglia oltre la quale un aumento del volume possa diventare controproducente ai fini dell’ipertrofia. Infatti va notato che i dati erano insufficienti per determinare se più di 10 set settimanali per muscolo offrivano ulteriori benefici ipertrofici e, in tal caso, a quale punto esiste una soglia. Sebbene manchi di evidenze empiriche, è possibile che la relazione dose-risposta tra volume RT e ipertrofia muscolare segua una curva a forma di U invertita, per cui un volume RT eccessivo porterebbe a adattamenti negativi.

E’ stato scelto il numero di serie come metodo di calcolo del volume di lavoro perchè  il Volume Load (VL) risulta essere piuttosto impreciso in quanto l’evidenza sembra suggerire che serva un VL più elevato se si utilizzano carichi leggeri per massimizzare la risposta ipertrofica, al contrario con carichi elevati si possono raggiungere risultati significativi anche con VL minore.

Concludendo, sulla base della letteratura attuale, 10 o più set per muscolo a settimana sembrano essere un buon punto di partenza per programmare il volume ai fini ipertrofici. Il volume dovrebbe quindi essere manipolato in base alla risposta individuale. Detto questo, guadagni sostanziali possono comunque essere raggiunti con volumi pari a 4 o meno set (serie) per muscolo a settimana.

Dato che un allenamento costante con volumi elevati è stato ipotizzato che possa condurre al sovrallenamento, si può ritenere corretto che la periodizzazione del volume possa migliorare l’ipertrofia. Una combinazione di entrambi gli approcci ad alto e basso volume di lavoro potrebbe essere una strategia ottimale a lungo termine che consentirebbe una progressione costante. Quando ci si trova in un periodo in cui il volume è particolarmente elevato (es. 20 serie per muscolo), si potrebbe considerare di distribuire il volume totale in due sessioni di allenamento giornaliere separate. Poiché periodi di volume elevato nel RT non sono facilmente sostenibili per periodi lunghi, potrebbe anche essere incorporata una fase di scarico con volumi inferiori. È stato dimostrato che durante questi periodi una diminuzione del volume di allenamento del ~ 65% è sufficiente per il mantenimento e, in alcuni casi, anche per favorire aumenti della massa muscolare.

In chiusura di articolo Schoenfeld ci lascia con una proposta di periodizzazione del volume di allenamento per un macrociclo della durata di un anno.

 

Dimagrimento localizzato, una ricerca prova a far luce su questo mito

dimagrimento localizzato

Il dimagrimento localizzato, o “spot reduction” per dirla in altri termini, sembra essere un sogno per ogni appassionato o appassionata di palestra, chi non ha mai sognato di perdere parte del grasso localizzato sui fianchi o sulla pancia? Se è vero che dimagrire è una delle richieste più frequenti in ambito fitness, è altrettanto vero che chiunque voglia dimagrire lo voglia fare in precisi punti del corpo.

Il dimagrimento localizzato sembra essere una sorta di Sacro Graal del fitness ed è anche molto dibattuto tra gli addetti ai lavori, si parla molto del fatto che esso sia possibile o meno e con quali tecniche poter perdere massa grassa in zone specifiche. Al momento la ricerca è combattuta su questa possibilità in quanto si sono raggiunti risultati contrastanti nei differenti studi. Oggi vorre presentare una ricerca di Scotto di Palumbo et al. (Scotto di Palumbo A, Guerra E, Orlandi C, Bazzucchi I, Sacchetti M. Effect of combined resistance and endurance exercise training on regional fat loss. J Sports Med Phys Fitness 2017) che sembra gettare delle basi per future indagini in questa direzione.

E’ noto che il deficit calorico sia la componente più importante in un processo di dimagrimento e ciò vale anche in caso di dimagrimento localizzato, ma l’esercizio fisico ha la grande responsabilità di mantenere una elevata qualità di composizione corporea durante questo processo. Tuttavia, in questo studio si è scelto di mantenere un regime di dieta normocalorica, ovvero ogni soggetto partecipante è stato invitato a continuare a seguire quelle che erano le sue abitudini alimentari.

Per questo studio gli autori hanno selezionato sedici donne fisicamente inattive (età: 31 ± 4, BMI: 27,5 ± 2,1), assegnate casualmente a due gruppi, hanno completato un programma di allenamento di 3 volte a settimana per 12 settimane. In un gruppo (UpBdResist) le sessioni di allenamento consistevano in esercizi contro resistenza per la parte superiore del corpo seguiti da 30 minuti al 50% di VO2max alla cyclette, mentre l’altro gruppo (LwBdResist) eseguiva esercizi contro resistenza per gli arti inferiori seguiti da 30 minuti su un ergometro a braccio. Alla fine dello studio la composizione corporea dei vari comparti è stata valutata tramite DEXA e pliche cutanee.

Il design della ricerca ha previsto che le sessioni di allenamento fossero eseguite sotto la supervisione di un esperto di esercizi. I soggetti partecipanti hanno completato un allenamento contro resistenza a circuito composto da 5 esercizi sulle seguenti macchine isotoniche: chest press, low row, arm curl, deltoids machine, triceps machine per il gruppo UpBdResist; gluteus machine, seated leg curl, abductor machine, leg extension, adductor machine per il gruppo LwBdResist. Per ogni esercizio, sono stati eseguiti 3 set di 10 ripetizioni al 60% 1RM richiedendo ai soggetti di fornire la massima velocità di contrazione (quindi eseguiti in maniera esplosiva), con un recupero inter-set di 30 secondi, nel tentativo di indurre la massima potenza per ogni movimento specifico e per aumentare lo stress metabolico. Al completamento del circuito, la stessa sequenza è stata ripetuta per la seconda volta. L’esercizio contro resistenza è stato seguito da un esercizio aerobico di 30 minuti condotto ad un’intensità corrispondente al 50% di VO2max. UpBdResist si sono esercitate al cicloergometro mentre LwBdResist all’ergometro del braccio. All’inizio e alla fine di ogni sessione di allenamento sono stati eseguiti un riscaldamento di 10 minuti e un periodo di cool down di 5 minuti.

Sono state avanzate delle ipotesi da parte dei ricercatori riguardo i risultati ottenuti ed è stato ipotizzato che gli esercizi contro resistenza effettuati ad elevate velocità, in maniera esplosiva, provocano una forte risposta catecolaminica con conseguente lipolisi a livello locale. Tuttavia, gli ormoni circolanti influenzano tutti i depositi di tessuto adiposo e non solo il tessuto adiposo selettivamente adiacente ai muscoli contratti. Per questo, il dimagrimento localizzato è stato attribuito ad un aumento del flusso sanguigno nel tessuto adiposo adiacente ai muscoli agonisti che facilita l’approvvigionamento di una maggiore quantità di ormoni circolanti ai distretti esercitati, promuovendo così la lipolisi locale. Tuttavia, la lipolisi, insieme ad un aumento del flusso sanguigno del tessuto adiposo, è solo una parte del quadro della perdita di massa grassa, poiché gli acidi frassi liberi (FFA) mobilizzati devono essere assorbiti e ossidati dal muscolo scheletrico per evitare la riesterificazione. Pertanto, un’elevata disponibilità di FFA è in grado di migliorare l’ossidazione locale e totale del grasso quando la richiesta di energia totale è significativamente aumentata, ovvero durante l’esercizio aerobico.

Quindi, secondo questo studio, per poter massimizzare gli effetti di questo protocollo di allenamento è necessario che i FFA liberati durante gli esercizi con i sovraccarichi possano essere ossidati efficacemente durante la successiva fase di lavoro aerobico. Questo potrebbe spiegare in parte le differenze riscontrate tra il gruppo UpBdResist  e quello LwBdResist, in quanto le masse muscolari coinvolte durante la fase aerobica dell’allenamento UpBdResist, ovvero al cicloergometro, sono significativamente maggiori rispetto quelle utilizzate durante il lavoro all’armoergometro, promuovendo in tal modo un maggior dispendio energetico.

Arrivando ora alle conclusioni, la ricerca ha riportato una riduzione della massa grassa simile in entrambi i gruppi, però l’allenamento UpBdResist ha provocato una maggiore riduzione della massa grassa (FM) negli arti superiori (UL) rispetto agli arti inferiori (LL) (Δ% UL rispetto a LL: -12,1 ± 3,4 vs -4,0 ± 4,7 ; P = 0,02). Al contrario, nel gruppo LwBdResist, la perdita di FM era più pronunciata negli arti inferiori rispetto agli arti superiori (Δ% UL rispetto a LL: -2,3 ± 7,0 vs -11,5 ± 8,2, P = 0,02), anche se in maniera meno marcata rispetto alla perdita di FM locale nel gruppo UpBdResist .

Depressione ed esercizio fisico: la cura viene anche dal movimento

La depressione, definita anche “male del secolo”, è un disturbo dell’umore che si manifesta accompagnandosi principalmente a una bassa autostima e alla perdita di interesse e/o piacere nelle attività normalmente piacevoli. E’ ormai noto che tale patologia va affrontata di sicuro attraverso una terapia psicologica o psichiatrica mirata, ma da recenti studi emerge che anche l’attività fisica può influire positivamente sul miglioramento dei sintomi depressivi.

Da una metaanalisi condotta da Brett R. Gordon (2018) è emerso che vi è una relazione di efficacia tra l’allenamento contro resistenza e i sintomi depressivi. In questa meta-analisi di 33 studi clinici che ha visto l’inclusione di 1877 partecipanti, l’allenamento con esercizi di resistenza è stato associato a una riduzione significativa dei sintomi depressivi. Il volume totale dell’allenamento, lo stato di salute e il miglioramento dei gradienti di forza non erano associati all’effetto antidepressivo.

Pertanto l’allenamento con esercizi di resistenza sembra poter essere correlato positivamente alla riduzione dei sintomi della depressione indipendentemente dallo stato di salute, dal volume totale prescritto di esercizi contro resistenza o da miglioramenti significativi della forza.

Saranno necessari altri studi per poter approfondire la relazione che intercorre tra la depressione e l’esercizio fisico, quali meccanismi ne sono coinvolti e come poter agire al meglio per contenerne i sintomi, ma una strada importante è stata tracciata.

Allenamento eccentrico vs allenamento concentrico per l’ipertrofia

Si sente parlare parecchio delle differenze a favore dell’ipertrofia tra l’allenamento eseguito principalmente attraverso ripetizioni eccentriche e le ripetizioni concentriche. Quale delle due diverse modalità esecutive apporta i maggiori benefici dal punto di vista dell’ipertrofia muscolare?

Una  metaanalisi condotta da Schoenfeld cerca di far luce su questi aspetti da sempre controversi. Per condurre questa analisi sono stati selezionati dal team di ricerca 15 studi in grado di soddisfare i seguenti criteri:

1) studi sperimentali in lingua inglese apparsi in pubblicazioni scientifiche;

2) studi che abbiano confrontato direttamente azioni concentriche ed eccentriche senza l’uso di attrezzature esterne (es. ausili per l’occlusion training, camera ipossica, ecc.);

3) i cambiamenti morfologici dovevano essere misurati tramite biopsia, tecniche di immagine, impedenza bioelettrica e/o densitometria;

4) durata minima dello studio di 6 settimane;

5) i partecipanti non avevano lesioni muscolo-scheletriche o qualsiasi condizione di salute che potrebbe direttamente, o attraverso l’utilizzo di farmaci, influenzare la risposta ipertrofica all’esercizio di resistenza (RT – Resistance Training).

Senza addentrarci troppo nei dettagli della ricerca, passo ad esporre le conclusioni a cui è giunto il team di Schoenfeld, in quanto l’analisi ha rilevato che, in media, l’allenamento eccentrico ha prodotto aumenti maggiori nell’ipertrofia rispetto all’allenamento concentrico (10,0% contro 6,8%, rispettivamente). Tuttavia, la differenza nei guadagni relativi all’ipertrofia (Effect Size – ES = 0,25, tale indice è stato calcolato come la variazione pre-test e post-test, divisa per la deviazione standard pre-test) indica che il vantaggio ipertrofico dell’addestramento eccentrico era relativamente piccolo.

Una delle ipotesi legate a questo lieve incremento ipertrofico riscontrato è probabilmente alle differenze di carico tra le azioni muscolari eccentriche vs concentriche, in quanto nelle azioni eccentriche sono stati utilizzati carichi più elevati cumulando quindi un maggiore lavoro totale. Questa ipotesi tuttavia è da confermare attraverso ulteriori ricerche mirate.

Indipendentemente dai meccanismi, questi dati, in combinazione con la ricerca che mostra diverse risposte di segnalazione intracellulare tra allenamento concentrico ed eccentrico, suggeriscono che la crescita muscolare si ottiene meglio eseguendo una combinazione delle due azioni.

Perdere peso: allenarsi a digiuno migliora la risposta fisiologica all’esercizio fisico

Perdere peso è forse una delle richieste più frequenti in ambito fitness, sappiamo bene che l’alimentazione è il fattore principale per poter raggiungere questo obiettivo, ma sappiamo anche che il perdere peso può essere raggiunto più efficacemente e con risultati più duraturi se viene abbinato all’esercizio fisico. Da una recente ricerca (2017) sembrerebbe però che anche il timing alimentare possa giocare un ruolo determinante nel favorire i corretti adattamenti fisiologici prodotti dall’attività fisica.

La ricerca che presento qui, condotta in Gran Bretagna, ha come obiettivo esaminare le differenze sulle risposte metaboliche e fisiologiche indotte dall’esercizio fisico condotto in stato di “digiuno” (almeno 12 ore) o di “alimentazione” (pasto consumato 2 ore prima dell’allenamento).

Sono stati selezionati dieci uomini sani di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Ai  partecipanti è stato valutato il loro Vo2max in laboratorio. Durante il periodo dello studio, i giorni di allenamento consistevano nel camminare per 60 minuti al 60% del V̇o2max in condizioni di digiuno o di alimentazione in un modello randomizzato e controbilanciato, separato da un periodo di washout da 3 a 4 settimane. Per essere ammessi a partecipare, i partecipanti dovevano essere in sovrappeso con una circonferenza della vita compresa tra 94 e 128 cm. Ai partecipanti è stato inoltre richiesto di avere un peso stabile per almeno 3 mesi (± 3%). I partecipanti hanno compilato un questionario sulla salute per escludere eventuali malattie cardiovascolari e metaboliche esistenti e un questionario di idoneità all’attività fisica (PAR-Q) per assicurarsi che essi fossero in grado di esercitare in sicurezza. Sono stati esclusi gli individui che assumono farmaci noti per influenzare il metabolismo dei lipidi/carboidrati o la funzione immunitaria e i fumatori. Pertanto dal disegno di ricerca emergono condizioni piuttosto rigorose e ponderate per ridurre al minimo le variabili che potrebbero influenzare i dati finali. I dati analizzati sono stati ricavati dal prelievo di sangue e di tessuto adiposo a riposo e dopo l’esercizio fisico per esaminare l’impatto dello stato nutrizionale precedente.

I risultati emersi hanno dimostrato che, come previsto, i livelli di glucosio e di insulina erano più elevati nei soggetti nutriti rispetto a quelli a digiuno, mentre la concentrazione di gli acidi grassi non esterificati (NEFA) era più alta in ogni momento nel caso di prove fisiche in stato di digiuno. Altri cambiamenti significativi sono stati riscontrati nell’espressione del mRNA del tessuto adiposo e nelle concentrazioni di adipochine e altre secrezioni del tessuto adiposo.

L’alimentazione precedente all’esercizio fisico ha aumentato l’utilizzo relativo di carboidrati e diminuito l’ossidazione dei grassi durante l’attività, pertanto ciò ha comportato uno stato fisiologico molto diverso. Confrontato con i cambiamenti nelle condizioni di esercizio a digiuno, l’alimentazione ha portato a variazioni più basse o una diminuzione di mRNA di PDK4, ATGL, HSL, FAT / CD36, GLUT4 e IRS2.

Abbiamo precedentemente dimostrato che la perdita di peso porta ad un forte aumento di geni come PDK4 e HSL nel tessuto adiposo, mentre la sovralimentazione porta ad una profonda diminuzione sia nel PDK4 che nell’HSL. Quindi lo stato nutrizionale ha il potenziale di influenzare marcatamente le risposte in acuto del tessuto adiposo all’esercizio fisico e, dato l’importante ruolo del tessuto adiposo nella salute, abbiamo visto che nutrirsi prima dell’allenamento smorza questi cambiamenti relativi alla salute indotti dall’attività fisica, così come attenua alcuni stimoli indotti dall’esercizio sul tessuto adiposo. E’ emerso che mRNA di GLUT4, mRNA IRS2 e la proteina IRS2 erano anche differentemente espressi nel tessuto adiposo in condizioni di digiuno e o di alimentazione. Questi effetti erano lievi ma coerenti, e questo sembra anche indicare che l’esercizio in uno stato “nutrito” non genererà gli stessi cambiamenti nei processi coinvolti nel metabolismo del glucosio e nell’espressione secretoria del tessuto adiposo come l’esercizio a digiuno.

Ed eccoci giunti alle conclusioni finali riportate all’interno dello studio esaminato: “Questo studio fornisce la prima prova che lo stato dell’alimentazione altera la risposta del tessuto adiposo all’esercizio fisico in acuto. Diversi geni coinvolti nel metabolismo dei lipidi, nella risposta all’insulina e nel trasporto del glucosio sono stati espressi in modo differente nel tessuto adiposo quando l’esercizio è stato eseguito in stato di alimentazione rispetto al digiuno con risposte inferiori o opposte dopo l’alimentazione. Data la natura e la direzione di queste differenze, proponiamo che l’alimentazione rischia di attenuare gli adattamenti a lungo termine indotti nel tessuto adiposo in risposta all’esercizio fisico regolare.”

Correggere gli atteggiamenti Rounded Shoulder con le bande elastiche

La Rounded Shoulder è una condizione piuttosto comune tra chi svolge lavori di ufficio ed è costretto a rimanere per svariate ore al giorno seduto davanti ad un computer, spesso assumendo posture scorrette. Questa atteggiamento è causa spesso di dolori e fastidi ed è caratterizzato da una postura con spalle curve in avanti, aumentata cifosi dorsale, scapole elevate e testa protratta. Ho tratto questo articolo da uno studio di Tae-Woon Kim et al. (2016) che hanno esaminato gli effetti di una seduta di allenamento svolta con bande elastiche per la correzione di questo atteggiamento posturale.

La maggior parte delle persone che passano diverse ore al giorno davanti ad un computer lamentano il collo, le spalle e dolore alla regione lombare. In particolare, quando si usa un computer in una postura inappropriata per un lungo periodo, la testa tende a muoversi in avanti e verso l’alto, il che provoca un aumento del peso della testa supportato dal collo, determinando in ultima analisi un aumento delle tensioni nella zona del collo e nelle aree che collegano la testa  alle spalle.

Se la testa è protratta per lunghi periodi, il momento flettente della testa aumenta, e per compensare lo sguardo in avanti è necessario un compenso eccessivo delle articolazioni superiori del collo e dell’articolazione atlanto-occipitale. Ciò può causare un accorciamento dei muscoli posteriori della testa e dei muscoli del collo.

Inoltre, a causa delle caratteristiche strutturali, questo può causare una postura caratterizzata da spalle anteposte e cifosi dorsale, detta rounded shoulder (RS). La RS è un tipico atteggiamento in cui le scapole sono elevate e l’acromion è sporgente in avanti rispetto al centro di gravità del corpo.

Le compensazioni messe in atto in questi casi causano squilibrio nei muscoli circostanti e alla fine causano dolore alla testa, articolazioni temporo-mandibolari, collo, schiena, spalle e braccia.

Cambiamenti nell’allineamento scheletrico possono indicare squilibri nell’allungamento e accorciamento dei muscoli, squilibrio nell’uso di muscoli antagonisti e agonisti, o difetti scheletrici che promuovono tali cambiamenti muscolari, e posture inappropriate aggravano dolore e danno.

In questo studio è stata indagata l’efficacia di un protocollo di allenamento svolto attraverso l’utilizzo di bande elastiche per poter correggere la rounded shoulder.

Le bande elastiche possono essere utilizzate per applicare la resistenza in un modo diverso da quello delle attrezzature sportive con pesi come i manubri. Inoltre, possono essere utilizzati in vari modi proprio come l’esercizio può essere eseguito in tutte le direzioni.

In questa ricerca clinica sono stati selezionati 12 soggetti partecipanti, tutti presentavano la Rounded Shoulder.

I soggetti dello studio hanno eseguito 3 serie del programma di esercizi con 15 ripetizioni per serie. E’ stata condotta una sola seduta di allenamento e le misurazioni sono state fatte prima e dopo l’esercizio.

Il programma di esercizi includeva i seguenti sette esercizi: 1) lat pull down, 2) esercizio di rotazione esterna della spalla, 3) esercizio di abduzione orizzontale della spalla, 4) seated bend row, 5) esercizio di abduzione della spalla, 6) esercizio di flessione della spalla e 7) esercizio di estensione della spalla.

  • Per il lat pull down, i soggetti tenevano entrambe le estremità dell’elastico mentre sollevavano le braccia alla larghezza delle spalle. Allungarono la fascia lentamente in entrambe le direzioni e la tirarono verso il petto. L’addome è rimasto contratto durante l’esecuzione dell’esercizio.
  • Per l’esercizio di rotazione esterna della spalla, i soggetti hanno piegato le braccia a 90 ° e orientato i palmi verso il soffitto, mentre i loro gomiti all’altezza del fianco. I soggetti tenevano l’elastico e lo allungavano lentamente ruotando le spalle all’esterno. Sono stati incaricati di non muovere i gomiti.
  • Per l’esercizio di abduzione orizzontale della spalla, i soggetti hanno disteso le braccia di fronte al loro corpo a 90 ° e li hanno posizionati alla larghezza delle spalle. I palmi delle mani erano rivolti verso il terreno e tenevano la fascia elastica. Hanno quindi allungato la fascia elastica orizzontalmente prestando attenzione a mantenere i loro gomiti estesi.
  • Per il seated bend row, i soggetti hanno posizionato la fascia elastica in modo tale che i loro piedi si trovassero al centro della banda. Poi si sedettero su una sedia e tenevano le estremità dell’elastico. I soggetti tiravano verso il loro petto la fascia elastica allungandola.
  • Per l’esercizio di abduzione della spalla, i soggetti hanno calpestato la fascia elastica con il piede sul lato esercitato, tenuto l’elastico con la mano e tenuto la mano bassa nella sua posizione neutra. Hanno quindi abdotto le spalle con i gomiti leggermente piegati.
  • Per l’esercizio di flessione della spalla, i soggetti hanno calpestato la fascia elastica con il piede sul lato esercitato, tenuto l’elastico con una mano e tenuto la mano bassa nella sua posizione neutra. Poi dovevano flettere la spalla mantenendo il gomito esteso.
  • Per l’esercizio di estensione della spalla, l’esaminatore teneva un’estremità della fascia elastica e il soggetto teneva l’altra. Il soggetto iniziò tenendo la banda elastica bassa nella sua posizione neutra, e poi allungò il braccio all’indietro con il gomito esteso il più possibile.

Sono state effettuate le seguenti misure del corpo per poter misurare i risultati e capire se vi erano stati miglioramenti della Rounded Shoulder: 1) altezza dell’acromion, 2) distanza tra la terza vertebra e l’acromion, 3) distanza tra la terza vertebra toracica e l’angolo inferiore della scapola, 4) distanza tra la superficie interna della scapola e le vertebre, e 5) lunghezza del grande pettorale.

La postura della testa in avanti può essere valutata misurando tre angoli, l’angolo della spalla anteriorizzata, l’angolo craniovertebrale (CVA) e l’angolo di rotazione craniale (CRA). L’angolo della spalla anteriorizzata è stato misurato attaccando i marcatori al trago, alla settima vertebra cervicale (C7) e all’acromion dei soggetti e sulla base di immagini sagittali. Per l’angolo craniovertebrale (CVA), è stato misurato l’angolo tra la linea verticale e la linea che collega C7 e il tragus. Per l’angolo di rotazione craniale (CRA), è stato misurato l’angolo tra la linea che collega C7 e il trago e la linea che collega gli angoli esterni degli occhi (canto laterale). Un software è stato utilizzato per misurare gli angoli di interesse. Tutte le misure sono state effettuate sul lato dominante del soggetto.

La postura ideale si riferisce a uno stato in cui le parti del corpo ricevono la minima quantità di stress contro la gravità e la posizione del corpo è opportunamente allineata nello spazio. Una postura inappropriata può causare movimenti inappropriati delle articolazioni influenzando il livello di tensione e contrazione dei muscoli, che può causare dolore. Pertanto, una buona postura è una misura della salute. I tipici cambiamenti posturali sono stati causati da postura inappropriata, postura della testa in avanti e spalla arrotondata.

Nell’atteggiamento posturale con la testa in avanti, il grande pettorale e il piccolo pettorale si contraggono e i muscoli romboidi si indeboliscono. Se i muscoli sottoscapolari non riescono creare un adeguato contrappeso muscolare, la testa dell’omero può scivolare anteriormente, la cintura scapolare può scendere, o il sollevamento della scapola può diventare difficile, portando a problemi funzionali nel grande pettorale.

Nel confronto tra le misure pre e post esercizio con le bande elastiche, abbiamo rilevato che la lunghezza del grande pettorale aumentava di circa 5 cm. Ciò significa che la distanza tra lo sterno e il labbro laterale del solco bicipitale è aumentata e, di conseguenza, si è pensato che il grande pettorale, che era stato accorciato in precedenza, fosse allungato.

Inoltre, l’accorciamento del grande pettorale, che contribuisce alla spalla arrotondata, sembra essere alleviato. Tuttavia, nessuna differenza statisticamente significativa è stata osservata nella distanza tra il letto e l’acromion, la distanza tra l’acromion e la terza vertebra, la distanza tra la terza vertebra e l’angolo inferiore della scapola e la distanza tra le vertebre e l’interno superficie della scapola.

La postura della testa in avanti viene diagnosticata quando il CVA è inferiore a 50° e il CRA è maggiore di 145°. Confrontando gli angoli della spalla anteriorizzata misurati prima e dopo il programma di esercizio con fasce elastiche, abbiamo rilevato che l’angolo della spalla in avanti è diminuito dell’8,41% e che il CVA è aumentato del 7,48%, mostrando una differenza significativa.

Nessuna differenza significativa è stata osservata nella CRA. Diminuzione dell’angolo della spalla in avanti e aumento del CVA significa che la testa si è avvicinata alla linea di gravità che collega il padiglione auricolare e il processo dell’acromion. In altre parole, la spalla arrotondata e la postura della testa in avanti si stanno trasformando in una buona postura.

I limiti di questo studio includono i seguenti: Poiché il numero di soggetti in questo studio è piccolo, la generalizzazione dei risultati è difficile. Inoltre, il programma di esercizi è stato condotto una sola volta e per tutti i soggetti è stato utilizzato lo stesso tipo di elastico con la stessa forza, senza considerare la forza muscolare.

Allenamento del core: isometrico o dinamico, cosa cambia?

plank - core stiffness

Spesso si parla di allenamento del core, ma quali sono i metodi più efficaci per allenarlo, e soprattutto perchè allenarlo? Attraverso uno studio di Lee e McGill proviamo a capire quali sono le differenze tra l’allenamento isometrico e quello dinamico.

Sebbene la rigidità (stiffness) del core migliori la qualità della prestazione atletica, esiste una controversia sull’efficacia dei metodi di allenamento del core isometrici rispetto a quelli dinamici. Questo studio mira a determinare se i cambiamenti a lungo termine nella stiffness possono essere allenati e, in tal caso, qual è il metodo più efficace.  Sono stati reclutati ventiquattro soggetti maschi per le misurazioni di stiffness passiva e attiva prima e dopo un protocollo di allenamento del core di 6 settimane. La stabilità della colonna vertebrale richiede sia stiffness passiva sia stiffness attiva: fondamentalmente la stiffness passiva è garantita dalle strutture legamentose ed ossee, mentre quella attiva è ata dalla co-contrazione muscolare.

plank - core stiffness Sono stati selezionati dodici soggetti principianti sia riguardo l’esercizio fisico sia l’allenamento del core. Gli altri 12 soggetti erano atleti esperti di Muay Thai. La stiffness passiva e la stiffness attiva sono state valutate attraverso appositi test dopo il protocollo di allenamento di 6 settimane. La stiffness passiva è aumentata dopo il protocollo di allenamento isometrico. L’allenamento dinamico ha prodotto un effetto minore e, come previsto, non c’è stato alcun cambiamento nel gruppo di controllo. La stiffness attiva, in sostanza, non è cambiata in nessun gruppo.

In conclusione, un approccio di allenamento isometrico è risultato essere superiore in termini di miglioramento della stiffness del core. Questo è importante poiché l’aumento della stiffness del core migliora la capacità di sostenere carichi pesanti, arresta o limita i micromovimenti dolorosi delle vertebre e migliora il movimento degli arti nei gesti  balistici. Ciò potrebbe spiegare anche l’efficacia dell’esercizio isometrico per il core per quanto riguarda la riduzione degli infortuni alla schiena e al ginocchio.

Il grounding: effetti positivi su stati infiammatori e malattie autoimmuni

Il grounding, detto anche  earthing, altro non è che il diretto contatto della pelle con la superficie della Terra, ad esempio con i piedi nudi (barefoot) o le mani, o con vari sistemi di “messa a terra”. Negli ultimi anni la ricerca ha evidenziato ha rivelato che il contatto elettricamente conduttivo del corpo umano con la superficie della Terra (grounding) produce effetti interessanti sulla fisiologia e sulla salute. In particolare, il grounding produce differenze misurabili nelle concentrazioni di globuli bianchi, citochine e altre molecole coinvolte nella risposta infiammatoria. E’ spesso soggettivamente riscontrato che camminare a piedi nudi sull’erba produce uno stato di benessere e questa sensazione può essere ritrovata nella letteratura di diverse parti e culture del mondo.Oltre al contatto diretto della pelle con la Terra esistono diversi dispositivi che consentono la “messa a terra”. Si tratta di semplici sistemi conduttivi sotto forma di fogli, materassini, cinturini da polso o da caviglia, cerotti adesivi che possono essere utilizzati all’interno della casa o dell’ufficio e calzature. Questi dispositivi sono collegati alla Terra tramite un cavo inserito in una presa a muro con messa a terra o collegato a un’asta di terra posta nel terreno all’esterno di una finestra.

Recentemente, un gruppo di circa una dozzina di ricercatori ha studiato gli effetti fisiologici del grounding da una varietà di prospettive. Questa ricerca ha aperto una nuova e promettente frontiera nella ricerca sull’infiammazione, con vaste implicazioni per la prevenzione e la salute pubblica. Sembrerebbe che la “messa a terra” possa ridurre o addirittura impedire i segni cardinali dell’infiammazione in seguito a un infortunio: arrossamento, calore, gonfiore, dolore e perdita di funzione.

Riduzione dell’infiammazione documentata con imaging a infrarossi medicali dopo aver sottoposto il paziente a grounding (earthing).

L’ipotesi principale, secondo Oschman, è che il collegamento del corpo alla Terra consenta agli elettroni liberi dalla superficie terrestre di penetrare nel corpo, dove possono avere effetti antiossidanti. In particolare, gli elettroni mobili possono creare un microambiente antiossidante attorno all’area infortunata, rallentando o impedendo alle specie reattive dell’ossigeno (ROS) di causare “danno collaterale” a tessuto sano e prevenendo o riducendo la formazione della così detta “barricata infiammatoria”.

Il grounding sembra migliorare il sonno, normalizzare il ritmo del cortisolo giorno-notte, ridurre il dolore, ridurre lo stress, aumentare la variabilità della frequenza cardiaca, accelerare la guarigione delle ferite e ridurre la viscosità del sangue.

Effetti sul sonno

Uno dei primi studi sull’earthing ha esaminato gli effetti della “messa a terra” sui profili del sonno e del cortisolo circadiano. Lo studio ha coinvolto 12 soggetti che soffrivano e avevano problemi a dormire. Hanno dormito a terra per 8 settimane usando un apposito letto collegato con un filo al terreno che ne assicurava la “messa a terra”. Durante questo periodo, i loro profili di cortisolo diurno si normalizzarono e la maggior parte dei soggetti riferì che il loro sonno migliorava e il loro livello di dolore e stress diminuiva.

Effetti sul dolore e sulla risposta immunitaria

Uno studio pilota sugli effetti della messa a terra sul dolore e sulla risposta immunitaria ai DOMS. DOMS è il dolore muscolare e la rigidità che si verificano ore e giorni dopo un esercizio intenso e non familiare.  Il dolore del DOMS è causato da un danno muscolare temporaneo prodotto dall’esercizio fisico.  Otto soggetti sani hanno eseguito un esercizio non familiare ed eccentrico che ha provocato DOMS ai loro muscoli gastrocnemio. Ciò è stato fatto facendoli eseguire due serie di 20 calf raise con un bilanciere sulle spalle e le punte dei piedi su una tavola di legno così da massimizzare anche la dorsiflessione della caviglia.

Tutti i soggetti hanno mangiato pasti standardizzati alla stessa ora del giorno e hanno aderito allo stesso ciclo del sonno per 3 giorni. Alle 17.40 di ogni giorno, quattro dei soggetti avevano cerotti conduttivi aderenti ai loro muscoli gastrocnemio e al fondo dei loro piedi. Si riposavano e dormivano su sistemi di “messa a terra”. Il gruppo di controllo, composto da quattro soggetti che hanno seguito lo stesso protocollo, tranne per il fatto che i loro cerotti e i loro letti non erano stati “messi a terra”. Le seguenti misurazioni sono state eseguite prima dell’esercizio e 1, 2 e 3 giorni dopo: livelli di dolore, risonanza magnetica, spettroscopia, cortisolo nel siero e nella saliva, sangue e chimica degli enzimi e conta delle cellule del sangue.

Il dolore è stato monitorato con due tecniche. Il metodo soggettivo comportava l’uso mattutino e pomeridiano di una scala analogica visiva. Nel pomeriggio, un bracciale per la pressione sanguigna è stato posizionato sul gastrocnemio destro e gonfiato fino al punto di un dolore acuto. Il dolore è stato documentato in termini di massime pressioni che potrebbero essere tollerate. I soggetti GROUNDING hanno sperimentato meno dolore, come rivelato sia con la scala del dolore analogico sia con la loro capacità di tollerare una pressione più elevata dalla cuffia della pressione sanguigna.

Confronto dei conteggi dei neutrofili, pre-test rispetto al post-test per ciascun gruppo.

Normalmente, i neutrofili invadono rapidamente una regione lesionata per distruggere le cellule danneggiate e inviare segnali attraverso la rete di citochine per regolare il processo di riparazione. La produzione di ROS (specie reattive dell’ossigeno – Reactive Oxigen Species) e di azoto reattivo (RNS – Reactive Nitrogen Species) da parte dei neutrofili è definita “burst ossidativo”. Mentre il ROS elimina i patogeni e i detriti cellulari in modo che il tessuto possa rigenerarsi, gli stessi ROS possono anche danneggiare le cellule sane adiacenti all’area da riparare, causando il cosiddetto danno collaterale. Il fatto che i soggetti GROUNDING avessero meno neutrofili e linfociti circolanti poteva indicare che il danno originale si risolveva più rapidamente, i danni collaterali ridotti e il processo di recupero accelerato. Ciò spiegherebbe la riduzione dei segni cardinali dell’infiammazione (arrossamento, calore, gonfiore, dolore e perdita di funzione) a seguito di una lesione acuta.

L’ipotesi presentata da Oschman ipotizza questo scenario: gli elettroni mobili della Terra entrano nel corpo e agiscono come antiossidanti naturali;  neutralizzano ROS e altri ossidanti nell’area danneggiata da riparare; e proteggono il tessuto sano dai danni. Il fatto che ci siano meno neutrofili circolanti e linfociti nei soggetti messi a terra può essere vantaggioso a causa del ruolo dannoso che queste cellule potrebbero avere nel prolungare l’infiammazione.

Conclusioni

La risposta immunitaria nelle lesioni grandi o piccole causa la produzione di ROS e RNS da parte di neutrofili e altri globuli bianchi per abbattere gli agenti patogeni, le cellule e i tessuti danneggiati. Le descrizioni dei libri di testo classici si riferiscono anche a una “barricata infiammatoria” che isola i tessuti danneggiati per ostacolare il movimento di agenti patogeni e detriti dalla regione danneggiata in tessuti sani adiacenti. Selye ha descritto come i detriti si coagulano per formare la barricata infiammatoria. Questa barriera ostacola anche i movimenti di antiossidanti e cellule rigenerative nell’area bloccata. La riparazione può essere incompleta e questa riparazione incompleta può creare un circolo vizioso infiammatorio che può persistere per un lungo periodo di tempo, che, a sua volta, nel tempo, può favorire lo sviluppo di malattie croniche.

Per quanto possa sembrare strano, i risultati qui esposti suggeriscono che questa classica immagine della barricata infiammatoria può essere una conseguenza della mancanza di “messa a terra” e di una conseguente “mancanza di elettroni”. Le ferite guariscono in modo molto diverso quando il corpo è “messo a terra”. La guarigione è molto più veloce e i segni cardinali dell’infiammazione vengono ridotti o eliminati

Fattori di stile di vita dominanti come calzature isolanti, grattacieli e letti rialzati separano la maggior parte degli esseri umani dalla connessione diretta della pelle con la superficie terrestre. Una connessione terrestre era una realtà quotidiana nelle culture del passato che utilizzava pelli di animali per calzature e per dormire. Oschman suggerisce che il processo di uccisione di agenti patogeni e di detriti dai siti di lesioni con ROS e RNS si sia evoluto per sfruttare l’accesso costante del corpo alla fonte praticamente illimitata di elettroni mobili che la Terra fornisce quando siamo in contatto con essa. Gli antiossidanti sono donatori di elettroni e il miglior donatore di elettroni è proprio sotto i nostri piedi: la superficie della Terra, con il suo magazzino virtualmente illimitato di elettroni accessibili. Sembrerebbe che il nostro sistema immunitario funzioni magnificamente finché gli elettroni sono disponibili per bilanciare le RNS utilizzate quando si tratta di infezioni e lesioni tissutali. Il nostro stile di vita moderno ha sorpreso il corpo e il sistema immunitario privandolo improvvisamente della sua fonte di elettroni primordiale. Questa separazione planetaria iniziò ad accelerare nei primi anni ’50 con l’avvento di scarpe fatte con suole isolanti al posto della tradizionale pelle. Le sfide dello stile di vita per il nostro sistema immunitario procedevano più velocemente di quanto l’evoluzione potesse soddisfare. Quando gli elettroni mobili non sono disponibili, il processo infiammatorio prende una direzione anormale. Le aree che sono carenti di elettroni sono vulnerabili a ulteriori lesioni. Il risultato è un sistema immunitario costantemente attivato e alla fine esaurito.